Come tutto è iniziato…
Ho iniziato la carriera di cuoco professionista poco prima di diplomarmi in elettronica, era il 1999 e la mia adolescenza stava finendo, così come le spaghettate con gli amici di sempre. Da bambino passavo pomeriggi interi a leggere l’enciclopedia culinaria, a guardare le foto di cibi disposti in pirofile ben guarnite, erano gli anni ‘80 e quelle ore trascorse su quei libri probabilmente hanno segnato il mio DNA. Non era tra le mie aspirazioni quella di diventare un cuoco, ma alle spaghettate tra amici ero sempre io quello che si metteva ai fornelli. Poi un giorno, per caso, mi ritrovai nella cucina di un pub a preparare panini e riscaldare cibi pronti. La mattina studiavo elettronica, e mi piaceva pure, ma lentamente nasceva dentro di me la passione per la cucina o forse era sempre stata lì nascosta e l’avevo trovata.
In cucina mi muovevo bene, mi sentivo bene i miei pur semplici piatti erano apprezzati, forse avevo trovato la mia strada. E arrivò il diploma e arrivò la consapevolezza che l’elettronica non era per me, ora volevo fare il cuoco. Passai nella cucina del classico ristorante sottocasa, e le prime padelle sul fuoco, era una cucina da incubo, ma non lo sapevo, non conoscevo, ignoravo. L’estate andai in vacanza in Olanda e sulle vetrine di molti ristoranti, sopratutto italiani, il cartello “chef wanted” mi entrò nella testa.Ci tornai a febbraio, ad Amsterdam, con un autobus che nel gelo attraversava l’europa e al secondo giorno già indossavo la giacca e spadellavo nella cucina del ristorante da battaglia. E li ho avuto le prime conoscenze dei personaggi che puoi incontrare nelle cucine. Come Chef Roberto, enigmatico cuoco cinquantenne bolognese con l’abitudine del gioco d’azzardo e delle vetrine a luci rosse, il cui comportamento elaborai dopo svariati anni. Era il Tivoli Italiaans Restaurant, avevo 21 anni, il più giovane in cucina e avrei dovuto essere lo Chef e quindi dirigere gli altri quattro personaggi che erano in servizio con me, si lavorava su due turni, quelli della mattina e quelli della sera; alle 5pm si cambiava turno e per qualche minuto tutti eravamo in cucina e si creava un clima in stile mercato popolare mediterraneo in terra straniera. Il ristorante era italiano ma in pratica noi italiani eravamo una minoranza, come tutti erano delle minoranze, a parte gli Israeliani, che erano proprietari del posto, o comunque parenti, nipoti o amici di amici del proprietario del posto, un anziano signore che gestiva altri ristoranti oltre che a traffici di diamanti, eravamo ad Amsterdam dopo tutto. Dopo che Chef Roberto impazzì e scappó restai l’unico italiano in cucina, insieme a rappresentanti di Algeria, Afganistan, Burkina Faso, Iraq e Catania (che però è in Italia, ma Antonio si vedeva di rado oramai, il suo accento siciliano preferiva farlo sentire ai clienti, vestito da cameriere), ero stato accettato, anche se il più giovane e anche se ero il loro capo, e leggevo ad alta voce le comande che la macchinetta sputava, a volte in forma di catenelle di biglietti, dovute all’improvviso riempimento del ristorante; perché se fuori c’era il sole la sala era vuota, ma appena iniziava a diluviare si riempiva di colpo, e questo succedeva svariate volte al giorno, eravamo ad Amsterdam dopo tutto. Ma il perché Chef Roberto impazzì io lo capiì solo mesi dopo, perché l’ultima cosa che mi disse al telefono urlando come un pazzo era “ci vediamo oggi pomeriggio” ma poi lo vidi 6 o 7 mesi dopo, “l’ho dovuto fare per farti accettare” mi disse. Chef Roberto era bolognese e tra le cose che mi insegnò a cucinare c’era la bolognese, il ragù alla bolognese con cui facevamo gli spaghetti alla bolognese e le lasagne alla bolognese forse anche i tortellini alla bolognese quando il tortellino non veniva usato per la stracciatella (this is not soup this is s**t disse l’iracheno). Cucinavamo a giorni alterni bolognese e napoli (ragù e salsa al pomodoro) nella misura di 30kg alla volta. Spesso il lavapiatti si incazzava con me, quando per mezza mattina il pentolone della bolognese bolliva sulla stufa a fiamma alta senza essere mescolato o comunque preso in considerazione e si attaccava al fondo, bruciando e diventando uno spesso strato di catrame, il resto del ragù lo salvavo, ma spesso dicevano che sapeva di bruciato, non capivo. Quel giorno arrivai in cucina alle 5pm e ad attendermi sorridenti, amichevoli, benevoli, quasi compiaciuti c’erano il restaurant manager israeliano e la brigata multietnica, mi chiesero cosa avevo fatto a Chef Roberto per farlo incazzare a quel modo. C’eravamo lasciati la sera prima dopo una giornata passata insieme a cucinare, la mattina mi disse “oggi ti devi trattare male, psicologia, psicologia”. eravamo in linea con tutte le preparazioni e lavoravamo bene ma ogni tanto partiva con una sclerata nei miei confronti davanti al resto della brigata, poi di nascosto da loro mi faceva l’occhiolino e sorridendo a bassa voce diceva “psicologia, psicologia”. A fine serata eravamo organizzati per il giorno successivo, non mancava niente.La mattina mi telefona, e inizia a urlare:”ma dove caz…cosa hai fat…dove l’hai mess…perché…ma cos…che caz…quel…pez…grrr…fff…ummm…aaaaah….CI VEDIAMO OGGI POMERIGGIO!” Voi l’avete capito Chef Roberto? Io si, mesi dopo,anni dopo. grazie Chef Roberto!
CONTINUA…..